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Tarantole e Tarantella: storia di un mito

“Nel momento del morso la tarantola inietta un fluido quasi impercettibile, il veleno, che uccide subito il paziente col suo contagio, ove non siano pronte musica e danza…”  (Baglivi G.)

Le parole del medico Giorgio Baglivi (1668-1707), tratte dal suo trattato “De anatome, morsu et effectibus Tarantulae”, danno un quadro molto preciso del mito della Tarantola.
Lo stesso autore cercò per quasi due anni di far luce sul fenomeno che durante il ’600 era diffuso in tutta la Puglia ed altre parti del Sud Italia. Era credenza che l’unico rimedio per il tarantolismo, la malattia dovuta al morso della “tarantola”, fosse una danza catartica chiamata appunto “tarantella”, i cui ritmi ripetitivi ed accelerati inducevano convulsioni nel danzatore che lo avrebbero liberato dal veleno del ragno.
Questa pratica perdurò fino alla fine dell’Ottocento, epoca in cui la scienza medica fece finalmente luce sul caso.
Il vero artefice del morso venefico che portava anche alla morte del malcapitato – seppur raramente – non era la Tarantola (Lycosa tarantula o Lycosa tarentula come viene talvolta erroneamente riportato), bensì un altro ragno che vive nel suo stesso habitat, la Malmignatta o Vedova Nera europea (Latrodectus tredecimguttatus). Questo ragno, molto diverso dalla Tarantola, possiedeo un veleno neurotossico piuttosto potente, ma dal morso indolore. Durante la fienagione – la raccolta del fieno – che veniva effettuata da adulti e bambini, poteva succedere che sotto le ascelle del contadino non finisse solo il fascio di fieno, ma anche una malcapitata Malmignatta, la quale sentendosi schiacciare mordeva il suo assalitore.
Quando i primi sintomi (convulsioni addominali, spasmi, vomito) si facevano avvertire, si cercava allora il colpevole, un ragno grosso e pericoloso “sicuramente”. La Tarantola era quindi un ottimo capro espiatorio, anche perchè il suo morso, seppur innocuo per l’uomo, è sicuramente più doloroso e quindi ben conosciuto dai contadini.

Il genere Lycosa comprende molte specie in tutto il mondo, con diversi rappresentanti anche in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Molte specie sono state recentemente descritte anche in Spagna ed in Francia e la tassonomia di questo genere è sempre in continuo divenire. Proprio da un recente lavoro spagnolo Lycosa narbonensis è stata ridefinita come conspecifica di Lycosa tarantula, scomparendo quindi di fatto dalla nomenclatura ufficiale.
Si tratta di ragni di grandi dimensioni, che possono raggiungere anche i 45 mm di corpo, adattati a vivere in luoghi per lo più steppici, con bassa vegetazione e clima tendenzialmente arido. Per sopravvivere al clima ostile scavano nel terreno reso morbido dalla pioggia, costruendo una tana che viene terminata da un collare attorno all’entrata, costituito di tela e fili d’erba. Solo la sera, quando la temperatura e l’umidità dell’aria lo permettono, questi ragni escono allo scoperto e si aggirano attorno al loro nascondiglio alla ricerca di Insetti.

Del mito della Tarantola rimangono i ricordi di una credenza che è rimasta comunque nella tradizione popolare coi suoi balli e le sue musiche e nella memoria degli emigranti in America, i quali vedendo per la prima volta le migali, grossi ragni tropicali della Famiglia Theraphosidae, li chiamavano (erroneamente) “tarantule”, da cui è poi derivato il nome anglosassone di “Tarantula”.

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